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Il sapere di ceramica è nell'aria: la prima metà del Novecento

Nei primi decenni del Novecento l’attività ceramica civitonico registrò un incremento della produzione accompagnato a una diversificazione dei prodotti: oltre alla stoviglieria, assunsero rilievo la lavorazione della ceramica artistica e il nuovo settore degli articolo igienico sanitari. Nel 1930 si registravano ben 17 imprese suddivise abbastanza equamente nei tre comparti produttivi e nel 1938 il numero degli addetti giungeva a contare circa 750 unità. L’imprenditorialità mostrava un carattere eterogeneo: proprietari di grandi impianti come Alessandro Sbordoni e Casimiro Marcantoni, associazioni di operai come la Cooperativa Volpato e la Società Cooperativa Terrano, piccole imprese artigiani come quelle di Bruno Becchetti e di Antonio Coramusi. Frequenti erano, specie nei periodi di crisi, i passaggi di proprietà, i cambiamenti di gestione, i mutamenti degli assetti societari finalizzati a mantenere in vita l’impresa. Tra gli imprenditori, ormai quasi tutti civitonico, figuravano i non ceramisti, di estrazione borghese, e i componenti del nucleo artigiano, singolarmente o consociati, il cui capitale era costituito dalle competenze necessarie alla produzione. La tradizione associativa La formazione di società di operai ha rappresentato una peculiare, attiva reazione dei ceramisti civitonico alle crisi occupazionali, legate soprattutto ai periodi critici del primo e secondo dopoguerra e ai licenziamenti causati da aspre battaglie sindacali. La Cooperativa Ceramisti nacque nel 1906 per iniziativa di un gruppo di operai licenziati dalla Ceramica Vincenti in seguito a uno sciopero; la fabbrica di Borghetto fu fondata da un industriale non civitonico e da un gruppo di ceramisti dopo il lungo e sfortunato sciopero del 1921; la Cooperativa Volpato sorse nel 1921 con l’aiuto di un sacerdote, don Costantino De Santis, per dare lavoro ad alcuni operai ex combattenti del primo conflitto mondiale. L’associazionismo operaio si è radicato sia nella tradizione artigiana locale che ha sedimentato il “saper fare” consentendo agli “operai di mestiere” di diventare imprenditori, sia nel particolare ambiente socio-politico di Civita Castellana, sin dagli inizi del secolo di orientamento social-comunista, che ha favorito una concezione del lavoro come fonte di responsabilità e rispettabilità per l’individuo e la comunità. Il modello associativo costituì una risorsa strategica anche nel periodo compreso tra il 1946 e il 1955, quando si susseguirono momenti di crisi occupazionale dovuta a vari fattori – il lento avvio della ricostruzione edilizia, la concorrenza di prodotti qualitativamente migliori, la forte conflittualità sindacale – che causarono la chiusura di molte aziende. I ceramisti senza lavoro fondarono numerose società giuridicamente configurate però come società di capitale in cui ciascun socio era proprietario di una quota di uguale entità. L’Artigianato Ceramico sorse nel 1948 ad opera di un gruppo di ceramisti comunisti; la Flaminia, la Facis e la Simca nel 1955, dopo un lungo sciopero che vide i proprietari delle varie fabbriche compatti nel rifiutare le “50 lire” di aumento salariale richieste. I soci – operai, al contempo lavoratori e proprietari, restituirono alla collettività la sicurezza lavorativa che non veniva più garantita dagli imprenditori. L’orgoglio che derivava della loro capacità di creare lavoro per sé e per gli altri, il forte senso di responsabilità, il valore comunitario del lavoro determinarono in questi ceramisti abnegazione e consuetudine al sacrificio; molti furono costretti a rinunciare al salario e al pagamento dei contributi per periodi prolungati e al loro sforzo, che assume nella memoria dei civitonico un carattere quasi eroico, viene attribuito il successo delle imprese e la crescita economica della città. Il mestiere Nella tradizione artigiana è radicato anche il sistema produttivo, caratterizzato fino alla metà degli anni Sessanta da modalità pre-industriali, più conformi alla manifattura che alla fabbrica. La fiducia nell’esperienza professionale induceva a ritenere gli operai più esperti migliori dei tecnici qualificati: i “chimici” ossia gli addetti agli impasti, ad esempio, sono stati soprattutto ceramisti che avevano imparato il mestiere in fabbrica, in particolare i membri di una stessa famiglia, i Carabelli, che hanno esercitato questa specializzazione per tre generazioni, e più raramente dei dottori in chimica – si ricorda il caso del chimico tedesco cui Alesandro Sbordoni affidò nel 1932 lo stabilimento appena fondato a Stimigliano. Allo stesso modo si riteneva inutile se non deleteria la presenza di personale amministrativo; nel 1930 la Ceramica Marcantoni annoverava , a fronte di 100 operai occupati, un solo impiegato. Il foggiatore o stampatore che realizzava interamente a mano il pezzo pronto per la cottura, veniva considerato l’espressione massima dell’abilità artigianale, “un vero artista”. Gli venivano pagati solo gli oggetti che non subivano danni durante la cottura – identificabili perché siglati con un numero – secondo una concezione artigiana del lavoro che vedeva il compenso commisurato al risultato finale e la bravura determinata della velocità e dall’abilità nell’esecuzione. Tra i fornaciai, cui spettava un lavoro di squadra molto delicato e faticoso, si riscontrava il livello più elevato di gerarchia all’interno della fabbrica; il capo fornaciaio, detto “capoccio”, responsabile della cottura dei pezzi nelle fornaci toscane, godeva di grande prestigio: “i capocci erano padreterni, comandavano e prendevano un sacco di soldi; ogni fabbrica aveva il suo capoccio e se lo litigavano pure”. Alla fine degli anni Trenta, la differenza di retribuzione evidenziava la diversa importanza dei ruoli: al capo fornaciaio spettavano 36 lire a giornata, al fornaciaio più esperto che infornava i pezzi 27 lire, ai fornaciai che seguivano le fasi di cottura 24 lire, agli altri fornaciai 20 lire, al manovale 10 lire. “Dovevi essere giovane, avere un fisico forte ed essere ambizioso per imparare”, ma lo sforzo fisico prolungato e il “calore che ammazzava”rendeva breve la vita lavorativa dei fornaciai”, “vecchi a 50 anni”. La presenza delle donne, nella prima metà del Novecento, si diversificava secondo il settore di produzione: poche nelle fabbriche di stoviglierie e sanitari, addette a mansioni umili o loro “confacenti” come il trasporto dei pani d’argilla dal luogo di preparazione dell’impasto al reparto foggiatura o la gestione del magazzino; molte invece le decoratrici impiegate nei laboratori di ceramica artistica, di alcune particolarmente brave si ricordano ancora i nomi: Francesca Silei, Fenisia Basili, Amelia Annesi.

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In 1930 there were 17 firms and in 1938 there were about 750 workers. There were owners of great factories, like Alessandro Sbordoni and Casimiro Marcantoni, trade-unions like the Co-operative Society Volpato or the Co-operative Society Terrano, as well as small artisan firms like the one owned by Bruno Becchetti and Antonio Coramusi. The birth of working societies represented a peculiar and active reaction of potters to after war industrial crises. The Potters’ Co-operative was founded in 1906, while the Co-operative Volpato was founded in 1921 thanks to a priest, Costantino De Santis, who employed ex-service men of first world war as potters. This associative model was a strategic resource also between 1946 and 1955, during times of occupational crisis, when many factories closed. Unemployed potters founded societies where every member had the same share: in this way a lot of factories like a Flaminia, Facis and Simca were founded. In the first half of 20th century, the presence of working women was different in various fields of production. They worked in laboratories of artistic ceramic mainly as decorators.