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Il ciclo produttivo delle stoviglierie e dei sanitari

Fino agli anni ’50 del Novecento, le tecniche e le modalità di lavorazione adottate per la produzione di stoviglierie e sanitari dalla gran parte delle manifatture civitoniche, pur consentendo una produzione in serie e un notevole grado di standardizzazione, presentano tratti di tipo artigianale. Nella gran parte delle manifatture il ciclo produttivo prevedeva l’uso della terraglia tenera per gli impasti, ottenuti con la macinazione a umido entro molini a palle,“botti”, fasi di lavoro eseguite con l’ausilio di pochi mezzi meccanici, e la cottura dei manufatti all’interno di fornaci toscane alimentate a legna. Foggiatura a mano e a stampo La foggiatura delle stoviglierie era realizzata al tornio a piede e, progressivamente, con il tornio meccanico a frizione, a mano o a calibro. Frequente era l’impiego di stampi in gesso eseguiti direttamente al tornio, riproducenti la forma esterna dell’oggetto. Il “piattaro” adagiava sullo stampo una lastra d’argilla, tagliata a misura mediante due stecche di legno recanti incisi i segni dello spessore necessario e un filo di ottone, o con un “taglialastre, ed eliminava l’argilla eccedente. Dopo una fase di essiccazione, capovolgeva la forma e, non appena l’oggetto raggiungeva la durezza del cuoio, la rifiniva con stecche di legno. L’uso degli stampi,“stampe”, è fondamentale anche nella produzione dei sanitari, la loro realizzazione era compito del modellista che eseguiva, senza alcun disegno, un “modello” in gesso dell’oggetto da realizzare da cui ricavava un primo stampo, necessario a produrre il prototipo; dopo ulteriori passaggi e adattamenti creava la madreforma e, da questa, gli stampi. Negli anni ’30 per realizzare un water closet era necessario l’uso di sei-sette stampi: “le due pareti, il sopra, il piede, la sella, lo scivolo per l’acqua, la veletta”. Ogni pezzo veniva modellato singolarmente dallo stampatore in maniera artigianale ponendo nello stampo l’impasto precedentemente ridotto in lastre; procedeva poi ad unire le pareti, legando i pezzi con una corda fermata con un gancio di ferro, metteva il piede, a questo punto rovesciava il pezzo e inseriva all’interno il lastrino, la veletta e la sella; il giorno seguente toglieva gli stampi e con i “forini” e le “mostrine” apriva i fori per l’acqua e il troppo pieno, eliminava eventuali bolle d’aria con un sottile punteruolo e rifiniva le giunture dei vari pezzi dello stampo con la “lancetta” e con lame piatte, lisciava infine con le dita o con una spugna le parti ritoccate. Posti ad essiccare su scaffali di legno,detti “stangati”, i water venivano sottoposti ad un’ulteriore rifinitura, “passatura”, per renderne liscia la superficie raschiandola con carta vetrata. Con questa tecnica uno stampatore realizzava cinque - sei pezzi al giorno; ogni pezzo richiedeva un’ora circa di lavoro e, al termine, vi apponeva il suo numero di identificazione. La cottura Fino agli anni ’50 i forni di cottura utilizzati erano del tipo a fiamma diretta alimentati a legna: la tipologia più diffusa era quella della fornace toscana costituita da due camere sovrapposte, di sezione per lo più quadrata, alle quali si accede da porte che vengono murate durante il periodo di cottura. Il fuoco è alimentato in un focolaio disposto sotto la base del forno. Per la camera superiore passano liberamente le fiamme, quella inferiore, invece, contiene un’altra camera, muffola, formata da piastre di materiale refrattario, dove non vi è presenza di fiamme. Stoviglierie e sanitari erano di norma sottoposti alla doppia cottura, che forniva prodotti di qualità migliore e garantiva un minor scarto. Costruite da maestranze locali specializzate, le fornaci avevano dimensioni variabili, in media potevano contenere dai 200 ai 300 pezzi; nella gran parte delle manifatture vi erano una o due fornaci ma, agli inizi del Novecento, nelle Fabbriche Riunite per la Ceramica ne erano attive ben cinque. Ad ogni fornace erano addetti due fornaciai, coadiuvati da un manovale “bagajo”, che si alternavano ininterrottamente in turni di cinque o sette ore fino al completamento del ciclo di cottura che durava cinque giorni ed era articolato in fasi ben distinte, così riassunte dagli stessi foraciai: “ Sforna, ‘nforna, legna, fascine, stacca, freddo” ; al “capoccio”, il capo fornaciaio, spettava il controllo e la distribuzione degli incarichi. Smaltatura, decorazione e verniciatura Dopo la prima cottura i manufatti devono essere verniciati; la preparazione e il dosaggio delle sostanze per le vernici, come pure per gli smalti e i colori, rientravano tra le competenze di una figura professionale di rilievo nell’industria ceramica, il chimico, al quale spettava anche la messa a punto delle composizioni degli impasti. “Nelle fabbriche più piccole le vernici erano preparate dai proprietari; ognuno aveva la ‘cartuccia segreta’, la ricetta veniva sempre portata in tasca e, al momento di mettere i componenti dell’impasto, per non farsi vedere, si allontanava chiunque con delle scuse”. Le diverse materie componenti le vernici e gli smalti erano triturate e calcinate collocandole entro speciali padelle o crogioli di refrattario in fondo al focolare della fornace, su un’apposita piattaforma in mattoni, ad una temperatura di circa 1000°. Il prodotto fuso, detto fritta o marzacotto, dopo essere stato raffreddato, era finemente polverizzato entro molini a palle. Con l’aggiunta di acqua si otteneva, infine, una poltiglia più o meno fluida, omogenea, deposta sul biscotto per immersione. I sanitari, accuratamente spolverati, erano “bagnati” a mano, ossia immersi nello smalto con l’aiuto di un bastone “puntarolo” e poi ritoccati a pennello. Dopo la prima cottura le stoviglierie potevano essere decorate; la decorazione, eseguita dapprima a mano con pennelli e, attorno agli anni ’50 anche con stampini di gomma o spugnette, avviene prima della verniciatura. Il personale impiegato in questa fase, a partire dagli anni ’50 del Novecento, era per la gran parte femminile, le decoratrici, lavoravano sedute al “torno” presso un banco da lavoro sul quale erano collocati entro vaschette i colori: applicati a pennello, per dipingere motivi a grandi fiori, o con forcine, a due o tre punte, per ottenere i decori a fasce e a filetti, i più semplici e diffusi, che consentivano a ciascun addetto di decorare alcune migliaia di piatti al giorno.

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Until the 50s , the working techniques in the factories of Civita Castellana were mainly handcrafted. Most of manufactures used soft pottery, had few mechanical machines and burned objects inside Tuscan kiln, fed with wood. Kitchenware was realized with manual turning lathe and then with mechanical turning lathe; plaster stamps reproducing outer form of object were often used. The artisan put on the stamp a slab of -previously cut- clay, then he got rid of the clay in excess. After drying it he overturned the object and, when it was very hard, he finished the work with wooden sticks. The use of stamps was very important in the production of sanitary articles too. In the 30s six or seven stamps were needed to realize a water closet and each form was moulded separately by the artisan: he put the mixture, slab-shaped, in the stamp, combined single parts with a rope and overturned the form; in next day he took away stamps through sharpened instruments. The water-closets were put on shelves to be dried and polished too. Using this technique, an artisan created about five or six water-closets in a day. Until the 50s most common type of furnace was the Tuscan kiln, with direct flame, formed by two rooms (laid upon each other) with doors walled up during cooking. Kitchenware and sanitary articles were cooked in two phases in order to give them the best quality. The kilns had different dimensions and could contain from 200 to 300 forms. In each factory there were one or two kilns. Two kiln-men worked on every kiln, alternated until the end of cooking: the cooking cycle lasted about 5 days. After the first cooking the objects were painted: in each factory there was a chemist who prepared paints, colours, enamels and mixtures. The sanitary articles were immersed in enamel through a stick, then retouched with brush. The kitchenware, after the first cooking, was decorated with brushes and, around the 50s, with rubber stencil-plates or small sponges; the decorators were often women.