Un biodistretto nel distretto industriale: una piacevole sorpresa

Enogastronomia

Seppur in presenza di un distretto industriale ben strutturato, come quello ceramico di Civita Castellana, la marcata vocazione agricola del territorio della bassa Tuscia e l’importante presenza di aziende agricole a conduzione biologica hanno reso possibile, nel 2013, la nascita del Biodistretto della Via Amerina e delle Forre.

Il progetto Bio-Distretto vede protagonisti praticamente tutti i comuni del distretto industriale della ceramica (ad esclusione del comune di Sant’Oreste) ed aggrega diversi altri comuni della zona: Civita Castellana, Castel Sant’Elia, Corchiano, Fabrica di Roma, Faleria, Gallese, Nepi, Orte, Vasanello, Calcata, cui si aggiungono nel 2017 i tre comuni dei monti Cimini: Canepina, Vallerano e Vignanello.

Si tratta di un territorio rurale in cui l’agricoltura biologica rappresenta una scelta strategica condotta già da molti produttori locali in modo consapevole. L’agricoltura biologica è un metodo di coltivazione e di allevamento che permette di sviluppare un modello di produzione che eviti lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, in particolare del suolo, dell’acqua e dell’aria, utilizzando invece tali risorse all’interno di un modello di sviluppo che possa durare nel tempo.

enogastronomia
Enogastronomia nel territorio del biodistretto

Nell’area del Bio-Distretto della Via Amerina e delle Forre si contano, ad oggi, diverse centinaia di produttori agricoli impegnati nelle filiere ortofrutticole, vinicole, zootecniche e di trasformazione di altri prodotti di eccellenza. La loro offerta si rivolge al mercato interno, tuttavia per alcune produzioni, come olio d’oliva e vino, i mercati più accessibili sono quelli esteri.

Prodotti tipici

Il nocciolo

Pur omogeneo da un punto di vista culturale ed ambientale, il territorio presenta una discreta varietà nella produzione agricola ed alimentare.
Le produzioni principali sono quelle legate alla “piantata”, le cosiddette colture legnose, dove spicca il nocciolo, “la nocchia” che occupa il 18% della superficie agricola utilizzata. La coltivazione è presente in tutta l’area, anche se si concentra nei comuni di Calcata, Corchiano, Fabrica di Roma, Faleria, Gallese e Vasanello. Pianta presente allo stato selvatico sin dall’epoca preromana, coltivata dal 1400, la sua produzione diviene preponderante negli anni ’50. Dal 2009 la produzione gode del riconoscimento Dop “Nocciola Romana”, che comprende due cultivar della specie Corylus avellana: la Tonda Gentile Romana e il Nocchione. Tutto il comprensorio della Via Amerina e delle Forre è individuato come zona di produzione tipica.

nocciolo
Nocciolo

L’Olio

In associazione con il nocciolo e la vite, raramente a coltura specializzata, l’olivo ha una discreta presenza nell’area. Pur essendo coltivato in tutti i comuni, è a Gallese che troviamo la maggiore superficie agricola utilizzata.
Le cultivar frantoio, caninese e leccino, da sole o congiuntamente, vanno a far parte della Dop olio extravergine di oliva “Tuscia”, che vede tutti i comuni del comprensorio all’interno della zona di produzione. L‘olio prodotto ha un carattere fruttato medio, con colore verde smeraldo e riflessi dorati.

Olio
Olio

Il Vino

La vite, pur in minore quantità, è un’altra importante coltivazione legnosa della zona. I comuni a maggiore produzione sono, nell’ordine, Vasanello. Corchiano, Orte, Fabrica di Roma e Gallese. Il comprensorio appartiene a due zone di produzione di vini doc: “Vignanello”, dove ricadono i comuni di Vasanello, Corchiano, Fabrica di Roma e Gallese: “Colli Etruschi Viterbesi” dove ricade il comune di Orte. Le uve maggiormente utilizzate sono per la bacca bianca, il trebbiano, la malvasia, il greco e, per la bacca rossa, il sangiovese, il ciliegiolo ed il montepulciano.
Negli ultimi anni la produzione vinicola del comprensorio ha fatto registrare un’importante evoluzione qualitativa con cantine che combinando metodologie all’avanguardia e la cura del territorio ottengono vini di alta qualità conquistando riconoscimenti importanti a livello nazionale e internazionale.

vino
Vino

Le castagne

Nei comuni di Fabrica di Roma, Canepina, Vallerano e Vignanello non va dimenticata la coltivazione del castagno, tipica dell’area cimina. Anche per questo prodotto è in via di riconoscimento il marchio Dop “Castagna dei Monti Cimini”. La Castagna dei Monti Cimini designa le castagne fresche, essiccate o surgelate, riferibili alla specie Castanea sativa Miller, ecotipo locale “Castagna domestica dei Monti Cimini”, e cultivar “Marrone fiorentino”, “Marrone premutico”.
Il frutto, spesso unico nel riccio e di forma globosa e pezzatura cospicua, ha una polpa dolce e saporita ed è facilmente sbucciabile. La maturazione dei frutti avviene intorno alla seconda decade di settembre protraendosi per un periodo di circa 20 giorni. ll mercato di destinazione primario è quello del fresco, dove il marrone arriva tradizionalmente dopo un primo condizionamento in acqua fredda per circa 2-6 giorni in vasconi o tini di legno, detti “cura”. Ciò al fine di bloccare l’insorgere di patogeni durante la conservazione. Successivamente vengono lasciate asciugare e movimentate giornalmente secondo un processo detto trapalatura.

castagne
Castagne

Orti e allevamenti

Tra le coltivazioni tipiche dell’area vi è l’orticoltura. Le buone condizioni d’irrigazione e la tradizione fanno di Nepi con circa 100 ettari di orti, una delle zone di maggiore produzione nel viterbese dopo i comuni dell’area maremmana. Si deve segnalare anche la produzione, ormai di nicchia, del “Carciofo di Orte”, uno dei prodotti tradizionali del Lazio.

Le notevoli estensioni a pascolo e a foraggere, nei territori di Nepi, Civita Castellana, Orte e Gallese, consentono l’allevamento di ovini e bovini, con una buona produzione di carne e formaggi. Diverse aziende offrono i loro prodotti in punti vendita disseminati sul territorio. Tra i formaggi si sottolinea che il comprensorio rientra in parte nelle dop “Pecorino romano” e “Ricotta romana” anche se in questi anni si assiste ad un’evoluzione qualitativa ed a una vitalità degli allevatori e produttori che offrono al consumatore prodotti di elevata qualità organolettica.

Tra le carni non possiamo dimenticare le produzioni norcine, come il salame cotto; la scapicollata simile al capocollo ma con maggiore presenza di grasso e speziatura; i budellucci prodotti dalla lavorazione degli intestini del maiale consumati dopo l’essiccazione, il capocollo o lonza; la coppa, insaccato speziato ricavato dalla di testa del maiale: le coppiette strisce di carne di suino o bovino speziate con finocchio, peperoncino, aglio ed essiccate: la porchetta; il guanciale simile alla pancetta ma più magro e saporito ottenuto dalla lavorazione dei muscoli della guancia di maiale; la mazzafegato salsiccia nera sia normale che dolce con presenza nell’impasto di fegato di maiale.

salumi e formaggi
Salumi e formaggi

Pane e raccolte spontanee

Per quanto riguardai prodotti derivati dai cereali pani, paste e prodotti da forno (tozzetti, cazzotti, amaretti, ciambelle, maritozzi, pizze) che utilizzano spesso la nocciola. La zona ha una ricca tradizione con produttori che utilizzano ancora forni a legna. Ultima, ma non per ultima, va citata la cosiddetta produzione spontanea proveniente da un territorio ricco di ambienti naturali. La raccolta delle erbe selvatiche da sempre ha scandito le stagioni sulla tavola. Dalla “misticanza”, raccolta sui pascoli, composta da una grande varietà di erbe di campo, “cicoria”, “cresta di gallo”, “ramolaccio”, “grispigna o crespigno”, “pimpinella”, “raponzolo”, “borragine”, “porcacchia”, alla raccolta degli asparagi selvatici sui margini meglio esposti delle forre. Alla raccolta delle “lopole” (Humulus lupulus) sui bordi dei torrenti e nelle acque più pulite il “crescione” (Nasturtium officinale). Non dimentichiamo i funghi di sottobosco, con i porcini, gli ovoli, i galletti per i sughi e di campo con i “pratarelli”.

funghi
Funghi

Mulini e frantoi

Anche se oggi i luoghi della trasformazione dei prodotti agricoli non sono più quelli tradizionali, restano sul territorio le tracce degli edifici che nel passato hanno svolto un ruolo fondamentale nell’economia di queste terre.

Sui fondovalle di ogni centro abitato, collegati da sentieri, spesso semplici mulattiere, sorgono i mulini ad acqua, luoghi strategici fino alla metà del Novecento per la sussistenza di intere popolazioni. Il mulino era un complesso sistema di edifici ed opere edilizie che serviva a catturare la forza idraulica dell’acqua, trasformarla in forza lavoro e restituirla al fiume. Il primo elemento del sistema era lo sbarramento (legata) costituito da un piccola diga posta trasversalmente al senso della corrente. Da qui, tramite la gora, un canale costruito o scavato nel tufo, veniva trasportata l’acqua che cadeva con forza sulle pale in legno della turbina orizzontale, la quale faceva girare la macina in pietra. Nei mulini ad acqua si macinava un po’ di tutto: grano, granturco, orzo e biada per gli animali.

Bisogna comunque ricordare che la tipologia del mulino ad acqua spesso era utilizzata anche per le mole da olio dei frantoi. Più frequentemente il frantoio si collocava nei pressi dei centri abitati e veniva alimentato dalla forza animale utilizzando gli asini. La macina veniva fatta girare dall’asino aggiogato ad una leva innestata su di un asse verticale. La pasta delle olive, continuamente posta sotto il raggio d’azione della macina tramite pale di legno, veniva poi collocata nelle bruscole, larghi dischi cavi simili a borse. A questo punto, all’energia animale si sostituiva quella umana del frantoiano. Le bruscole venivano collocate sotto una pressa a formare una pila, separata a tratti da dischi di legno duro, per far sì che il liquido, così spremuto, venisse raccolto in capaci bigonci, posti in pozzetti ricavati alla base del torchio. Niente di ciò che veniva prodotto tanto faticosamente andava perduto: oltre all’olio vergine di qualità superiore, i residui della lavorazione delle olive (la sansa) venivano ugualmente raccolti e persino la fondata non veniva gettata, perchè sarebbe servita ad alimentare lampade ad olio.

mulino
Antico mulino a pietra

Borghi e cantine

II tufo è la pietra vulcanica sulla quale sorgono tutti i borghi del Comprensorio della Via Amerina, materiale facilmente lavorabile che si presenta in banchi di decine di metri. Sin dall’epoca falisca, le abitazioni sono state edificate scavando, con ascia e piccone, prima gli ambienti ipogei e poi utilizzando il materiale per elevare i muri fuori terra. Ogni abitazione posta nei centri storici ha nell’interrato dei locali utilizzati per la conservazione degli alimenti: cantine, cisterne per acqua, granai, magazzini.

Tuttora utilizzate, le cantine sono formate da due o più livelli al di sotto del piano di campagna. Il livello superiore, quello a piano terra, veniva utilizzato per l’arrivo delle uve, per la fase di pigiatura e per la prima fermentazione del mosto (in alcuni casi si utilizzava la bocca di lupo posta alla base degli edifici). Il secondo livello, dove la temperatura è più costante, raggiungibile con una scala scavata nel tufo, era utilizzato per la conservazione all’interno delle botti.

cantina nel tufo
Cantina scavata nel tufo

Enogastronomia: la tradizione, la cucina, le stagioni

Da sempre i caratteri del territorio hanno determinato gli usi e i costumi dei propri abitanti, in particolare le tradizioni gastronomiche. Poco sappiamo e poco resta del sistema alimentare dei falisci, come i ventres (forse salsicce o forse trippa) citati da Marziale e giudicati pesanti da Stazio; di sicuro resta la vite che amava vendemmiare Anniano in un suo podere nell’Agro Falisco; scomparso il lino, citato da Grazio Falisco, ma ancora oggi sono presenti i robusti buoi

che Ovidio vide nella processione di Giunone Curite e che Plinio cita nella sua Naturalis Historia. Territorio di antica tradizione agricola e denso di strutture architettoniche di tipo rurale come testimoniano i prata di Corchiano, sistemazioni idrauliche di carattere agrario di epoca romana.

Di certo è molto raro trovare fonti che documentino la cucina popolare. Si risale, quindi, all’anzianità delle ricette a seconda dei prodotti utilizzati. I piatti più antichi sono le zuppe e le minestre di legumi, la cui preparazione, risale al Medioevo. Si faceva largo uso di pesce conservato: essiccato (baccalà, aringhe), marinato (anguille) o salato (acciughe), tanto che se ne fa cenno in un tariffario del Comune di Nepi del 1861.

Il baccalà era il pesce più consumato: l’acqua per dissalarlo veniva riutilizzata per tenere a bagno i ceci in modo da risparmiare il sale, oppure cucinato con un guazzetto agrodolce con una salsa di pomodori, cipolla e uvetta.

Questa zona del viterbese, soprattutto il territorio di Nepi, è storicamente ricca di acqua, quindi la sua cucina è stata sempre ricca di erbe di campo: cicoria ripassata, erbe di campo consumate crude (la misticanza), la frittata con il luppolo (lopole), nonché di ortaggi, spesso cucinati in connubio con le carni (salsicce e broccoli, coratella di abbacchio con le cipolle o con i carciofi). Tipico era anche il consumo di rane (fritte o in zuppa) e di lumache, cucinate in guazzetto di pomodoro: quest’ultimo piatto è giunto anche ai nostri giorni. I prodotti prevalenti erano, comunque, quelli dell’aia e del casale a conduzione familiare: conigli, pollame, uova, piccioni, raramente l’abbacchio, il maiale.

Il rapporto tra cucina e stagioni è, nel corso del tempo, patrimonio della cultura popolare; essendo spesso la necessità a dettare le regole dell’alimentazione, quello che si raccoglieva nei campi e negli orti finiva sulla tavola, perchè non c’era nient’altro.
Il rapporto tra cucina e stagioni diventa “ufficiale” molto tardi: nel XVIII secolo quando, partendo dalla Francia, si abbandona il cosiddetto modo di cucinare “invadente” (caratteristico, fino allora, della cucina “alta”), l’usanza cioé di ricoprire le pietanze di spezie fino ad occultarne il sapore originario e quindi la loro “naturalità”.
Qui iniziano, di fatto, gli albori della cosiddetta “cucina regionale” codificata, che valorizza gli alimenti freschi (stagionali), le verdure, le erbe aromatiche: si tratta del matrimonio tra la cucina popolare e quella “alta”, che impiegherà ancora un secolo per divenire ufficiale.
Tuttora, in un periodo dove in tutte le stagioni si reperisce qualsiasi tipo di verdura e carne fresca, esiste un canone di comportamento in cucina, secondo il quale alcune ricette vengono preparate esclusivamente nella stagione consona.

Primavera

E’ il tempo delle erbe di campo, dai nomi più vari a seconda dei paesi, e che si consumano crude (la misticanza); della cicoria ripassata in padella con olio, aglio e peperoncino; delle frittate con gli asparagi e con le lopole (luppolo), erbe, queste ultime, che vengono utilizzate anche nella preparazione di alcuni primi, in connubio con il guanciale; è il tempo dei carciofi fritti, alla romana, in frittata, con la coratella d’abbacchio.
Comune la pizza con l’erba (rotoli di pizza ripieni di cicoria); cicoria lessata ripassata in padella con olio, aglio e peperoncino, fave fresche con pecorino romano. Dove c’è l’usanza, è anche il tempo migliore per l’acquacotta, per la presenza nei campi della mentuccia più profumata. A marzo, il giorno di San Giuseppe, in alcuni paesi, si preparano le frittelle di riso (sorta di bomboloni con il riso lessato in acqua e latte. uova, rhum, lievito di birra, cannella e zucchero).

fave
Fave e pecorino

Estate

E’ il tempo della panzanella, preparata nel modo classico (pane bagnato, pomodoro e basilico), oppure con l’aggiunta di acciughe, cipolla, sedano e, in tempi moderni, del tonno. A volte il semplice panonto o panontella, pane e olio. E’ il tempo delle lumache, cucinate per lo più in un guazzetto di pomodoro, men-tuccia e aglio; della scafata, zuppa preparata con fave fresche, menta e lattuga; dei fiori di zucchina, fritti oppure in pizza di pastella (impasto di acqua, farina e olio, senza lievito); fave e pecorino romano (tipiche delle merende all’aperto).

panzanella
Panzanella

Autunno

E’ il tempo delle puntarelle o mazzocchi (è la cicoria di catalogna nella fase della spigatura, della quale si usano solo i germogli e i fusti centrali che, immersi nell’acqua, si arricciano), conditi con olio, aglio e acciughe; dei funghi, con i quali si preparano, insieme a salsicce o guanciale, ottimi primi di pasta fresca all’uovo o, più frequentemente, a base di acqua e farina. E’ il tempo delle nocciole, base per tutti i nostri dolci secchi: tozzetti (farina, uova, lievito, zucchero, buccia di limone, nocciole sgusciate); cazzotti (farina, uova, nocciole, burro, cacao amaro, lievito).

puntarelle
Puntarelle

Inverno

E’ il tempo dei legumi secchi che si preparano in vari modi: in minestre (con i fagioli, con le lenticchie, con i ceci) insieme alla pasta all’uovo fresca o con la pasta di grano duro; in umido, di solito con le salsicce e le spuntature di maiale. Quest’ultimo ha rappresentato e rappresenta tuttora, anche se in minore misura, la base del mangiare invernale, soprattutto sotto forma di insaccati (salsicce secche e salsicce di fegato, salami, prosciutti). E’ il tempo del cenone di Natale dove il piatto forte sono i fritti in pastella di broccoli, carciofi, patate, baccalà, borragine (Borrago officinalis ripiena di mozzarella e acciughe) e il baccalà in umido (baccalà dissalato, pomodoro, cipolla, uvetta). Da non dimenticare la pizza con gli sfrizzoli, sia dolce che salata, preparata con ritagli essiccati di grassi di maiale.

Minestra con fagioli
Minestra con fagioli

Oggi la cucina del territorio si presenta come un riuscito connubio tra quella romana e quella umbra con influssi derivanti dall’emigrazione del primo novecento (Marche e Puglia).
Le minestre di legumi sono arrivate ai nostri giorni, dall’uso di pasta fresca (mal-tagliati e quadrucci) e, in alcuni paesi, arricchite con le nocciole o le castagne. Tipica nei giorni di festa la stracciatella con brodo, uova sbattute, formaggio e noce moscata. Da segnalare è la scafata, zuppa preparata con fave fresche, menta e un battuto di guanciale.
Molto ricca è anche la varietà delle paste: prime tra tutte quelle a base di acqua e farina: lombrichelli, strozzapreti, frascarelli, senza però dimenticare le classiche fettuccine e pappardelle condite in vari modi: sugo di carne di maiale, lepre, cinghiale, funghi. Non mancano, nella cucina della domenica, i cannelloni, gli agnolotti e il timballo.

strozzapreti
Strozzapreti

I secondi piatti sono caratterizzati dalla preparazione a base di animali da cortile, quali pollo e coniglio arrosto, a bujone (pomodoro, aglio e rosmarino), alla cacciatora (varie spezie, olio e aceto), maiale (soprattutto la porchetta) e dall’uso diffuso di agnello (a scottadito, alla cacciatora, arrosto e, anche se di ormai rara diffusione, brodettato, cioè con uovo strapazzato).

arrosto
Arrosto

Tra i contorni primeggiano il carciofo, i broccoletti, la cicoria (questi ultimi due ripassati in padella con olio, aglio e peperoncino).
Da segnalare la tradizione dei fritti, quali il broccolo, il baccalà, la borragine (erba di campagna) ripiena di mozzarella e alici, soprattutto per la cena di Natale; le cotolette di agnello e i carciofi a Pasqua; il fiore di zucca, le zucchine, le melanzane, le patate, in estate.