Falerii Veteres e Falerii Novi: viaggio nel tempo

Falerii Veteres

Civita Castellana dista da Nepi otto miglia, ma se si viaggia a piedi o a cavallo posso raccomandare una strada campestre che fa risparmiare due mi­glia. Appena passato il ponte di Nepi, il viaggiatore giri subito a destra per la strada che porta a Castel Sant’Elia e prosegua dritto sino a vedere Falerii Veteres.

Castel Sant’Elia è un villaggetto arroccato su un grosso sperone di tufo, di sicura origine Etrusca e doveva essere probabilmente un “CASTELLUM” dipendente da Nepi e posto lì a sua difesa. La strada per tutto il suo percorso è tagliata nel tufo e sembra molto antica. È costeggiata da muretti di tufo ed an­che questi sembrano molto antichi. Poche le tombe vuote ed abbandonate che si incontrano lungo la via.

Oltrepassato Castel Sant’Elia, si entra in una pia­nura verde e disabitata che ha in sè quel non so che di maestoso e solenne che è proprio della Campagna Romana. Un burrone la fiancheggia da ambo i lati, a destra esso è profondo e scuro, ombreggiato dal fogliame fitto degli alberi, a sinistra sul suo ciglio, corre la strada maestra per Civita Castellana.

Da un lato la vista corre sopra il verde di larghi e fitti boschi di querce sino ai Cimini, sulle cui pendici risplendono al sole Ronciglione e Caprarola. Di fronte si vedono in lontananza le torri di Civita Castellana. Più lontano ancora, ai limiti dell’orizzonte, si scorgono molti paesi arroccati sulle pendici dei monti del­l’Umbria mentre da un lato il Soratte con le sue punte scure, troneggia isolato sul piano. La pianura, leggermente ondulata, è rotta qua e là da forre profon­de coperte da fitte macchie di arbusti e varia di colore ed intensità a seconda del terreno. I monti dell’Abruzzo con le cime coperte di neve chiudono il pae­saggio con una cornice incomparabile.

Un pecoraio, dall’aspetto selvaggio ed i cosciali di capra, appoggiato al lungo bastone, sorveglia il gregge ed osserva il viandante. È silenzioso e non fa nessun gesto, solo i suoi cani abbaiano lungamente al nuovo arrivato. Questa immagine arcadica e pittoresca completa la bellezza e la suprema calma del pae­saggio finchè l’incanto è bruscamente interrotto dalla vista di un cippo, ai bor­di della strada, che ricorda un viandante ucciso in quel punto dai malfattori.

Per giungere a Civita Castellana, bisogna lasciare la strada ed attraver­sare la profonda valle che chiude la pianura verso mezzogiorno. La strada maestra continua lungo il dirupo ed entra trionfalmente senza dislivelli nella città attraverso i bastioni della fortezza del San Gallo con la sua bella tor­re ottagonale. È ora una prigione del Governo Pontificio, la Bastiglia di Roma del presente secolo.

Chi non si è soffermato qui ad ammirare il Ponte Clementino che scavalca maestosamente la vallata e che costituisce la meraviglia della città? La bellezza di questo cavalcavia, degno della Roma imperiale, si associa benissimo con la maestosità del paesaggio e con la storia di FALERII VETERES e le sue grandi vestigia. Scommetterei che solo uno su cinquecento dei visitatori del Ponte Clementino si recherà poi a visitare il Ponte Terrano sul Treia e la grande necropoli Etrusca che lì giace. Son sicuro che nessuno dei cinquecento sa­prà della importanza archeologica e storica di questo luogo.

Proprio vicino al ponte e sul ciglio dello sperone di roccia su cui Falerii Veteres è costruita, esiste un tratto di mura, costruito in tufo ad EMPLECTON a diciassette file, ed i blocchi sono esattamente della misura che abbiamo visto a Sutri ed a Nepi.

Chi entra in paese da questo punto e prende la strada a sinistra in disce­sa, arriverà al convento di Sant’Agata che è situato sull’angolo Nord Est del­lo sperone roccioso. La strada corre in trincea e non occorre nessuna partico­lare conoscenza per capire che si tratta di una strada etrusca. Ha sul lato esterno un canaletto, scavato nel tufo, che scarica le acque piovane giù nella forra. Lungo la strada che scende a precipizio nella valle, vi sono moltissime tombe etrusche che, purtroppo, la incuria ingiuriosa degli uomini ha modifica­to in forma e destinazione declassandole a stalle per pecore, maiali, bovini.

Vi sono nella parete diversi sbocchi di fognature del tutto simili a quelle che abbiamo visto a Sutri ed in altri luoghi etruschi. Per molto tempo si credé che qui fosse Veio, di cui si era persa la traccia dopo la sua dissoluzione e molti avevano scambiato le sue fognature per il famoso CUNICULUS di Ca­millo. Per la verità tutte le città etrusche del Lazio hanno lo stesso sistema di fognature che è reso possibile dalla facilità di scavo di questa pietra vulcanica, su cui poggiano.

Per il beneficio di quegli studiosi che amano i particolari, abbiamo voluto misurare le dimensioni di questi cunicoli. Essi sono di circa un metro e ses­santa di altezza, settantacinque centimetri di larghezza alla base, quarantacinque centimetri nella parte alta. Dalle dimensioni si deduce che lo spazio era appena sufficiente per il lavoro (non troppo comodo) di un uomo. Dopo un tratto quasi orizzontale, questi canali sotterranei salgono verticalmente ed arrivano al livello stradale del paese per raccogliere le acque piovane e quelle di rifiu­to delle case. Le misure sono pressoché identiche in tutta la Tuscia ed esse sono pure identiche (particolare interessante) alle misure delle fognature sco­perte lungo le pendici del Campidoglio. Dobbiamo aggiungere che questo siste­ma era congegnato in modo che la fogna era costantemente lavata dalle acque pulite delle fontane che allontanavano odori molesti ed il pericolo di epidemie.

In questo punto ci troviamo sull’estremo angolo del promontorio di FALERII VETERES. Da una parte il precipizio, scavalcato dal famoso Ponte Clementino, dall’altra la parete verticale che guarda a levante. La strada esce da due porte medioevali vicine, molto rovinate e serpeggia giù nella valle del Treia che è attraversato da un bel ponte a tre archi. Dal fondo, alzando lo sguardo verso il paese, si nota che esso è molto in alto e che lo sperone di tufo poggia in basso su uno strato di roccia arenaria bianca. Sul ciglio del burrone proprio in dire­zione del ponte, corre una fila di mura medioevali costruite su tratti di mura più antiche Etrusche. Lo sbocco di una fogna a metà della costa conferma la loro antichità.

Lo sperone ha un andamento Nord Sud, poi all’improvviso, piega ad angolo retto nel punto dove il ruscello Saleto, chiamato Rio Ricano, sfocia nel Treia. È un posto solitario e selvaggio, molto pittoresco. Non v’è alcun segno d’anima viva. Solo un viandante guada il fiume Treia saltando da un sasso all’altro attra­verso la corrente. Nessuno passa nei viottoli della costa. Nessun rumore giunge dall’abitato. Le pareti verdi delle pendici sembrano sorridere o appaiono imbron­ciate a seconda che vi batta il sole o rimangano in ombra.

Per vedere meglio il profilo del paese conviene passare dall’altra riva del fiume. Da lì si nota un tratto di mura che riempie un vuoto della parete a picco ed abbiamo potuto constatare che era formato da dodici file di tufi. Poco più in là un secondo tratto a cinque o sei file. Purtroppo non si può ispezio­nare la struttura come uno vorrebbe a causa dell’altezza e della asperità della parete che si innalza per oltre sessanta metri a picco sulle nostre teste, comun­que ad un occhio esercitato non sfugge che i tratti medioevali hanno per base tratti di mura etrusche. Sotto le mura, a metà parete si notano tombe e tracce di fognature.

A Ponte Saleto dove si incontra la scorciatoia per Nepi, si attraversa il ruscello e si prende la strada per Civita Castellana fiancheggiata da tombe simili a quelle vicine al Ponte Terrano che descriveremo tra poco. Lo sperone qui gira verso Nord Ovest ed il viottolo lo costeggia lungo le mura esterne. In questo punto è più una forra che un burrone non supera i trenta metri di altezza dal livello della lingua di terra che unisce il paese con il piano della campagna circostante. È molto probabile che dove la parete non era sufficien­temente ripida sia intervenuta la mano dell’uomo per aumentare la asperità del luogo e pensiamo che questo lavoro non doveva essere stato poi tanto pesante considerata la facilità di lavorazione di questa pietra. Un particolare che colpisce e che non trova spiegazione logica, è che le mura sono state costruite pure sul ciglio del precipizio che data la sua altezza ed asperità rappresentava di per sé un invalicabile baluardo naturale, e ciò che più sorprende è che gli abitanti medioevali hanno insistito ed hanno riparato e rialzato le mura originali. Non sappiamo rispondere a questo interrogativo e saremmo curiosi di conoscerne la ragione. Per quanto riguarda le case attuali ba­sta uno sguardo per capire che un gran numero di esse sono state costruite con vecchi materiali.

Girando intorno al castello del Sangallo, si rientra in città attraverso una porta, aperta nei suoi spalti, dove si vedono tracce di una strada tagliata nel tufo che correva tra le mura ed il ciglio della pendice, dalla parte Nord. E’ fiancheggiata da tombe il che fa capire che era una via che uscendo da una porta, portava ad una necropoli della città sistemata appena fuori le mura. A questo proposito bisogna ricordare che gli Etruschi, come i Greci ed i Romani, non potevano per disposizione di legge, seppellire o bruciare i morti entro le mura ed i Romani, solo eccezionalmente ed in favore di personaggi illustrissimi, come Giulio Cesare, permisero che la cremazione ed i funerali avvenissero nel Foro.

Le tombe che abbiamo visitato sono a forma di pozzo conico alte circa tre metri e larghe due alla base. Questa forma è piuttosto comune nel Lazio, a Sud del Tevere ed anche in Sicilia. Molti hanno creduto per lungo tempo che questi pozzi fossero depositi di cereali anche perché vicino alle mura cittadine, e questo è comprensibile. Ma in questa zona la cosa è diversa perché tale tipo di tomba è comune nelle vere e proprie necropoli e non si può ammettere che si costruissero silos in mezzo ai cimiteri. In più, sul culmine della tomba, si poneva un cippo, si costruiva una nicchia, si poneva un oggetto votivo. Èanzi molto probabile che vi ponessero urne di terracotta con la effigie del morto come a Chiusi.

Invece di entrare in città, conviene prendere il viottolo che scende giù a precipizio sino al Ponte Terrano, un ponte che attraversa la valle nel punto dove si restringe a formare il letto del Rio Maggiore. È formato da un solo arco dell’altezza doppia della sua apertura e fu costruito su un ponte più vec­chio che in origine doveva essere molto più basso. Sopra il ponte corre un acquedotto, di recente costruzione, che alimenta il paese.

Il ponte Terrano è formato da una struttura moderna che poggia su una costruzione più antica. Esaminando bene i blocchi che formano il pilone Nord, per un’altezza di dieci file, e della larghezza di sette metri circa, si scopre che esso è stato costruito in EMPLECTON. Anche le dimensioni dei blocchi corri­spondono alle misure usate in questo genere di muratura dagli Etruschi. La parte superiore è stata costruita con blocchi più piccoli e irregolari. Non ho potuto osservare l’altro pilone perché è letteralmente soffocato dall’edera edai rovi. L’arco più basso è medioevale, cosi in definitiva, questo ponte è stato lavorato in tre distinte epoche. La sua antichità è stata messa scarsa­mente in risalto dagli antichi autori.

Qui, vicino al Ponte Terrano ci troviamo all’inizio della principale necropoli di Falerii Veteres. Sino al Ponte Clementino per una lunghezza di oltre mezzo miglio, è tutta una serie di tombe rupestri di ogni forma e dimensione. Innume­revoli sono le porte che immettono in tombe spaziose, innumerevoli le nicchie per le ceneri, di ogni misura e forma. Grandi, piccole, profonde o poco incavate, a file regolari come scaffali di una libreria, ora così grandi che sembrano un vero e proprio loculo, ora piccolissime come la feritoia di una fortezza. Queste tombe hanno anche un altro particolare. A differenza di Sutri dove l’ingresso immetteva direttamente nella tomba, qui la maggior parte di esse hanno una piccola anticamera, spesso non più larga di m. 1.50 quadrati ed una apertura nel soffitto, comunicante, come una specie di cappa di camino, con il terreno soprastante. La tomba vera e propria è generalmente spaziosa, dai dieci ai quindici metri quadra­ti, di forma quadrata o rettangolare, mai tonda, spesso con un massiccio pilastro al centro, lasciato dallo scavo, oppure con pareti, che dividono la tomba in quattro settori uguali. La parte frontale, prima del pilastro e delle pareti, è generalmente scavata in modo da formare loculi lunghi e poco profondi uno sull’altro, talvolta a creare una serie di nicchie per OLLAEcinerarie od offerte votive. Chi conosce le Catacombe Cristiane ha una idea abbastanza esatta di come queste tombe siano sistemate perché non differenziano molto da esse. Gli ingressi delle tombe portano spesso il segno della pietra che le chiudeva.

L’apertura sul soffitto delle anticamere è rimasto tuttora un mistero. Forse serviva, ipotesi meno probabile, a disperdere gli effluvi del cadavere in disfaci­mento, oppure serviva a dare aria alle tombe e farle rimanere il più possibile asciutte. Poteva anche avere un significato religioso in quanto i parenti del de­funto potevano da quel buco fare delle libagioni agli Dei Mani, però queste sono tutte ipotesi e non ne abbiamo nessuna prova. Rimanendo nel campo delle ipo­tesi, possiamo arguire che tali aperture potessero costituire delle entrate di emer­genza, sono infatti praticabili e questo è provato dalla presenza di piccoli incavi nelle pareti che potevano permettere l’appoggio di una mano e di un piede per la eventuale discesa o salita. Possiamo in ultima analisi ipotizzare che queste tombe potevano essere oggetto di una periodica ispezione o manutenzione e che, qualcuno, appositamente incaricato, di tanto in tanto, si calasse nella tomba per vedere che tutto fosse in ordine e anche rinnovare le offerte agli Dei Inferi. Siamo nel campo delle ipotesi e lasciamo al lettore il diritto di scelta nella solu­zione del problema. Questa uscita era chiusa normalmente da una pietra mono­litica. Tombe con tale apertura in alto sono state scoperte di tanto in tanto a Tarquini, Ferento, Cerveteri ed in altri luoghi dell’Etruria, ma mai così nume­rose come a Falerii Veteres ed a Faleri Novi, dove costituiscono una caratteristica prevalente.

Un certo numero di queste tombe hanno una anticamera con letti funebri, appoggi per sarcofagi, nicchie incavate nelle pareti, tutto però sembra più ru­stico, meno rifinito, meno ornato delle camere interne che formano la tomba di famiglia vera e propria. Molto probabilmente questa anticamera serviva per la sepoltura degli schiavi e dei dipendenti della famiglia.
Sulla facciata di una tomba si può leggere la parola TUCHNUdi cui sfugge il significato, a meno che non sia il nome di famiglia. Forse faceva parte di una più lunga iscrizione di cui, peraltro il resto non esiste più. Le lettere conservano tracce di rosso, il colore col quale le iscrizioni venivano normalmente dipinte per facilitarne la lettura. Nell’interno di una grande tomba vicino al Ponte Terrano, esiste una iscrizione etrusca su due righe, rozzamente intagliata nella roccia e con lettere alte circa 30 centimetri, misura non comune nelle epigrafi etru­sche. È scritta intorno ad un loculo a parete e questo dimostra che queste tombe sono decisamente etrusche e non Catacombe, come da alcuno azzardato.

Non ho notato nessuna altra iscrizione in questa necropoli a differenza delle tombe a Nord dei Cimini dove esse sono invece frequenti.

Risulta in questa necropoli, che il rito della inumazione era più usato del rito della cremazione a differenza di Sutri. Penso sia importante notare questi usi che sono diversi da luogo a luogo in Tuscia.

Chi voglia vedere le principali bellezze di Civita Castellana, deve discendere nel profondo precipizio che la circonda da questa parte. Il viottolo meno aspro è quello che parte dalle vicinanze di Ponte Clementino. Scende a zig zag nel tufo della costa e che sia antico è provato dai canaletti di scolo e dalle tombe che vi sono lungo il suo percorso. Dal fondo si può ammirare tutta la magnificenza del Ponte Clementino che è superato in grandiosità ed arditezza dal solo Pont du Gard a Nimes. Una cascatella alimenta un rustico mulino, abbarbicato nella parete rocciosa nei pressi del ponte.

L’aver scelto questo luogo per la propria necropoli, fa pensare che gli Etruschi avessero un grande senso estetico e sapessero scegliere i posti appro­priati per ogni destinazione. Questo è quanto ho pensato girando lo sguardo sulla Necropoli di Ponte Terrano.

Qui tutto sembra fatto apposta per il riposo eterno dei defunti. Il luogo è lontano da ogni rumore, l’ambiente è solenne, isolato, di difficile accesso, arca­dico. L’unico mormorio che si ode è quello del ruscello che scorre in basso perennemente, a significare la durata eterna della loro dimora. I numerosi colombi selvatici che nidificano negli anfratti del precipizio e ruotano sopra le tombe fanno pensare in simbolo alle anime che vagano nel nulla, in eterno. Tutte queste cose combinate insieme creano nel visitatore una atmosfera di sug­gestione che si imprime profondamente nella sua mente.

Torniamo ora per un minuto al prosaico. Per fortuna non mancano locande a Civita Castellana. L’albergo principale è quello de LA POSTA,che ha però una cattiva fama a causa della inciviltà del suo proprietario. Se pertanto il viaggia­tore nutre qualche perplessità, si consiglia LA CROCE BIANCA,sulla Piazza prin­cipale, dove potrà essere alloggiato in maniera più che docente e riceverà ogni attenzione, premura e cortesia dalla sua giunonica proprietaria. La specialità di questa locanda erano un tempo le salsicce, ma ora non sono più così buone come una volta.

La città ha poco più di duemila abitanti ed occupa solo in parte l’area originale. Le parti antiche, ora disabitate, sono occupate da giardini e vigne. A giudicare dalla sua ampiezza, Falerii doveva essere importante, anche perché è sicuro che fu una delle dodici città-stato della grande Confederazione Etru­sca. Nei tempi antichi si era pensato che qui fosse la antica Veio e nella Catte­drale esiste una lapide che erroneamente la definisce VEIORUM BASILICA, co­munque questa ipotesi è completamente caduta dopo le scoperte di Veio nei luoghi dell’attuale Isola Farnese. Il Geli crede che l’antica FALERII fosse FESCENNIUM ma è certo che FALERII VETERES è qui e questo sarà dimostrato nel pros­simo capitolo di FALERII NOVI.

Antica Via Amerina - Photo Credit Sergio Mancini
Antica Via Amerina – Photo Credit Sergio Mancini

Falerii Novi

La strada che da Civita Castellana porta a FALERII NOVI con un percorso di poco più di quattro miglia attraversa il Fosso dei Tre Camini a circa metà del percorso e lì vicino vi sono tracce di un antico ponte.
Poco prima di FALERII NOVI una tomba ci riempie di meraviglia e ci con­siglia ad una sosta non prevista. Immaginate un portico scavato nel tufo for­mato da tre archi, sormontati da una cornice riportata in blocchi di tufo lavo­rati, ora un po’ sconnessi e coperti da una fitta vegetazione. Sotto il portico vi sono appoggi per sarcofagi e fosse, per seppellire i morti, le quali probabil­mente venivano poi coperte di tegole, considerato che gli archi del portico dove­vano necessariamente restare comunque aperti.

Dal portico si entra nella tomba vera e propria attraverso una porta con cornice in rilievo, più stretta in alto secondo l’uso etrusco. L’interno bellissimo, sembra più una abitazione che una tomba, tanto la sua forma riproduce in ogni particolare la casa etrusca. Il sof­fitto piatto è sorretto da un massiccio pilastro quadrato che porta incavate nella parete frontale tre nicchie profonde, una sull’altra. Lungo le pareti sono altre nicchie, ma più piccole.

La cornice sopra il portico e le cornici della porta di ingresso sembrano più romane che etrusche però non penso che lo scavo della tomba sia romano. Molto probabilmente i Romani ne sono venuti in possesso in epoche successive e vi hanno aggiunto le attuali decorazioni, oppure le decorazioni sono etrusche ma di arte tarda, quando l’influsso Greco-Romano si faceva sentire anche nel­l’arte etrusca.

Era la prima volta che vedevo una tomba con una cornice riportata in mura­tura e pensavo che questa fosse l’unico esempio di tomba con portico, ma ne ho viste poi altre nelle vicinanze che ci hanno dimostrato essere questo un tipo proprio di questi luoghi. Una di queste tombe ha un portico a due archi, un’altra un portico ad un solo arco, ma forse in origine erano tre, e la terza ha un portico adibito a tomba senza la camera funebre comunicante, con letti funebri scavati. Un’altra aveva forse il portico scavato di fronte, ma probabil­mente una frana del terreno l’ha portato via. Questa tomba, oltre il portico, aveva due camere comunicanti, e con mia grande sorpresa, vi scoprii una iscri­zione latina, ben leggibile, ogni lettera della altezza di circa quattordici centi­metri. Il testo che portai a Roma è stato ricostruito dall’Istituto Archeologico Inglese di Roma e così suona in italiano:

A LUCIO VECILIO, FIGLIO DI VIBIO E POLLIA ABELE, È DATO UN POSTO (letto funebre). UN POSTO È DATO A VECILIO FIGLIO DI LUCIO E PLENESTA. NESSUNO PONGA ALCUNCHÉ AVANTI QUESTI LETTI SENZA IL CONSENSO DI LUCIO E CAIO LEVIO FIGLI DI LUCIO O SENZA IL PERMESSO DEGLI EREDI CHE FANNO LE ESEQUIE.

In questa tomba vi sono undici loculi scavati nelle pareti, la iscrizione è interessante perché dimostra che i Romani usavano le tombe etrusche ed a questo proposito dobbiamo notare che molte famiglie di origine etrusca vive­vano a Roma, ma riportavano i congiunti morti nei luoghi di origine. È quindi probabile che questa tomba appartenesse ad una famiglia etrusca trapiantata a Roma, ma che questa conservasse la «cappella di famiglia» (a dirla con ter­mine attuale) nei luoghi di origine, seppellisse lì i suoi morti, e concedesse ai parenti rimasti in paese il diritto di sepoltura, sia pure con alcune curiose limi­tazioni come abbiamo potuto constatare. Non v’è dubbio che questa tomba appartenne alla famiglia LEVII che dette il permesso di due loculi a membri della famiglia VECILII, probabilmente parenti poveri, rimasti in provincia. È interessante notare, nella iscrizione riportata, che al nome del padre è aggiunto il nome della madre (figlio di VIBIO e POLLIA) e (figlio di LUCIO e PLENESTA) secondo l’uso genuino etrusco.

Proprio dopo queste tombe si arriva a Falerii Novi. La vista della città colpisce, non tanto per la sua posizione che è in zona piatta ed uniforme, quanto per la vista di tante torri e tante mura, tutte così alte e ben conservate, e così pitto­resche per l’edera e le altre piante rampicanti che le possiedono. Si arriva a FALLERI dal lato Est attraverso una porta ben conservata ma molto interrata, dello spessore di due metri, pari allo spessore delle mura, formata di un arco a tutto sesto. Le mura hanno ora tredici file di tufo rosso, sono alte circa sette metri e mezzo, e costruite in EMPLECTON. I blocchi non sono cementati e posti uno sull’altro con grande precisione. In alcune parti il tufo è stato mace­rato dalle intemperie ma in alcuni punti conserva ancora la freschezza originaria, senza segni di corrosione, con la sola patina grigia data dal tempo.

Le torri sono a distanza irregolare, distano una media di trenta metri l’una dall’altra, sono quadrate, misurano circa cinque metri di lato e sporgono circa tre metri dal filo delle mura. Nella parte interna sono invece a filo con le mura e praticamente si confondono con esse, con il solo particolare che i bloc­chi delle torri sono più levigati e la lavorazione più accurata.

Proseguendo a Nord, dopo circa dieci torri, si arriva ad una piccola porta ad arco. Fuori, lungo la via che usciva da questa porta, vi sono molti ruderi di tombe Romane in OPUS INCERTUM. Blocchi di basolato, rovesciati dal pic­cone, indicano il tracciato della Via Amerina che da VEIO, VACANAS (Baccano), NEPE, FALEROS, HORTA (Orte), portava ad AMERIA (Amelia), per proseguire poi per TUDER (Todi), e PIRUSI o PERUSIA (Perugia). L’itinerario è ripor­tato dalla Tavola Peuntigeriana. Entrando in città attraverso una breccia, si incontra un muro, probabilmente costruito in epoca recente ma con vecchi mate­riali, che, partendo dalle mura, taglia in due una parte della città.

Riuscendo lungo le mura si arriva alla Porta di Giove, molto ben costruita ed in eccellente stato di conservazione, fiancheggiata da due torri. Le pietre dell’arco sono in peperino e hanno scolpita, nella pietra centrale dell’arco, una testa in alto rilievo. Non si capisce perché si chiami così quando questa testa non ha nessun attributo di Giove, né la barba né la fisionomia. È d’aspetto gentile ed attraente e potrebbe rappresentare con molta più approssimazione Bacco o Apollo. La porta è alta circa sette metri, larga tre metri e venti centimetri ed è profonda due metri, quanto le mura. Le spalle sono di peperino e l’arco è rifinito tutto intorno con due file di mattoni. Dalla porta si diparte una specie di via urbana fiancheggiata da due muri e conduce al convento diruto di SANTA MARIA DI FALLERI, l’unica fabbrica attualmente esistente entro le mura. Questa parte della città dove è ora la Chiesa era pro­babilmente l’Arx.

Porta di Giove Falerii Novi - Photo Credit Sergio Mancini
Porta di Giove Falerii Novi – Photo Credit Sergio Mancini

Le mura proseguendo in curva seguono l’andamento della piccola valle dove scorre il Miccino. Il terreno sul quale sorge FALLERI è appena ondulato e nella parte bassa, sotto il livello delle mura si notano diverse aperture di fogne. Dalla parte del Miccino, le mura sono molto danneggiate ed appena se ne rintraccia la direzione seguendo il corso delle torri che appena spuntano sopra il livello del terreno.

La zona subito fuori le mura danneggiate è ricca di tombe ed uscendo da FALLERI e passando dall’altra parte del ruscello, sulla parete di roccia che guarda la città, si notano subito molte nicchie in file regolari una sopra l’altra. Vi sono, mescolate con le Etrusche, anche tombe poco esplorata e mi dispiace di non aver avuto più tempo per esaminarla con cura. Lungo la cinta delle mura, nel punto dove queste formano come un semi­cerchio, v’è una tomba incastrata sotto una torre di notevoli dimensioni. A prima vista sembrerebbe che la tomba utilizzasse la torre stessa, ma un esame più accurato rivela che la tomba era precedente alla torre che ne ha pratica­mente bloccata la entrata. Questo fa pensare che la tomba preesisteva alla co­struzione delle mura e ne fu incorporata al momento della costruzione della città. Non è l’unico esempio perché proprio lì vicino vi è un’altra tomba nelle stesse condizioni.

Proseguendo nel giro delle mura, in un avvallamento della collinetta, esiste un tratto molto ben conservato con mura da otto a ventotto file, sino a otto metri di altezza e questo tratto pareggia molto bene l’avvallamento del terreno. Al centro di questo tratto si apre la Porta del Bove, ben lavorata ma non inte­ressante. Ai lati le torri e le mura sono coperte da una fitta vegetazione di edera e di sempreverdi, caverne abbandonate sono invase dal timo selvatico e dalla vite spontanea.

Il Soratte sovrasta con la sua massa grigia la valle boscosa. La scena è piena di un pittoresco grandioso, reso ancora più suggestivo dalla solitudine, dal silen­zio, dalla desolazione.

Le mura a Sud della città continuano per un breve tratto dopo la porta del Bove, quindi piegano in altra direzione e dopo nove torri, in perfetto stato di conservazione, si giunge ad una porta ridotta ora ad una mera breccia nelle mura. Appena lì fuori i ruderi di una tomba Romana di considerevoli propor­zioni attira il nostro sguardo. La base è quadrata, massiccia, sormontata da una massa di OPUS INCERTUM che una volta doveva essere tonda. Poco più avanti è la porta a Nord Est e qui si completa il giro delle mura.

Secondo i calcoli del Gell il perimetro delle mura misura circa duemilacinquecento metri. La forma della città è di un triangolo rettangolo con gli angoli smussati. Secondo il Gell rappresenta il miglior esempio di antica architettura militare Romana, ma malgrado l’autorità del Gell, dobbiamo dissentire comple­tamente dalla sua opinione.

Bisogna far presente che l’intendimento non fu quello di costruire una città fortificata, forse proprio il contrario. La nostra convinzione riposa su molti particolari che ci hanno convinto facilmente. Per prima cosa notiamo che le torri delle porte, invece d’essere costruite a destra di chi guarda la porta (per per­mettere ai difensori di colpire gli assalitori al fianco non protetto dallo scudo) erano costruite a sinistra. In più la località pianeggiante, non difesa da dirupi naturali, richiedeva, in caso di assedio, una difesa continua lungo tutto il giro delle mura con grande dispersione di forze. È chiaro che il numero delle porte (che sempre hanno costituito il punto debole delle fortificazioni) è qui esorbi­tante per una città fortificata.

Tutte queste circostanze ci hanno persuaso che la città sorse in sostituzione di altra conquistata e poi distrutta. Fu inoltre costruita in modo tale che non potesse costituire proprio per la sua debolezza difensiva, un pericolo futuro per il vincitore. Se adattiamo queste constatazioni alle circostanze storiche di FALERII VETERES, possiamo facilmente affermare che quando i Romani con­quistarono la città, non permisero agli abitanti di rimanervi, perché FALERII VETERES era troppo bene protetta dalla natura e dalle sue fortificazioni. Memori delle sue passate ribellioni i Romani costrinsero i vinti ad edificare una nuova città in località pianeggiante o quasi, che seppure cintata da mura, era difficil­mente difendibile in caso di assedio. Questa è la nostra opinione e ci sembra che essa corra sul filo della logica.

Pochi sono i resti all’interno delle mura. Nel punto dove sorgeva il teatro, nulla rimane dei suoi archi e degli spalti. Solo un rialzo circolare del terreno ne indica la pianta, e pochi frammenti di marmo e di travertino ne rivelano la presenza. Forse fu costruito all’epoca di Augusto perché qui fu trovata una statua di Livia nelle vesti della Dea Concordia. Altre statue furono anche tro­vate in questo posto. Recentemente il Campanari ha effettuato degli scavi ma con scarsi risultati.

Il convento e la Chiesa di SANTA MARIA DI FALLERI sono ancora in piedi ma anche questi edifici, abbandonati da tempo, stanno andando in rovina. La chiesa è in Gotico Lombardo, come molte altre Chiese in Italia, però il suo stile è piuttosto semplice e meno elaborato del solito. Fu costruita con i mate­riali della città e deve risalire al dodicesimo secolo.

Dobbiamo ora soffermarci, seppure brevemente sulle origini della città. Non v’è dubbio che luogo era etrusco come etrusche sono le tombe che nume­rose la circondano. Non riteniamo che queste tombe facciano parte della necro­poli di FALERII VETERES perché troppo lontane. Le mura sono etrusche, sen­za dubbio, ma non dobbiamo affermare che tutto quello che qui esiste è etrusco perché sappiamo che l’EMPLECTON fu usato sia dagli Etruschi sia dai Romani sino a tutto il periodo Repubblicano. Il Nibby, come il Geli sostiene che FALLERI era un esempio di architettura militare ed in questo ab­biamo dissentito, come sopra esposto. Il Canina sostiene che sia una città etrusca.

Cerchiamo di procedere in ordine. La regione è da tutti gli autori an­tichi e moderni ritenuta non Etrusca ma Falisca. La tradizione poetica degli autori storici Greci e Romani, ci ricorda che un figlio del Re Agamennone, di nome HALESUS o HALISCUSapprodò in Italia, scacciò i Siculi che occupa­vano i territori, e si insediò nella zona che si chiamò poi FALISCA.

(N.D.T. – I Falisci erano in definitiva una popolazione diversa dagli Etruschi e dai Latini che entrò a far parte dell’Impero Etrusco in epoca tarda, forse verso l’ottavo o il settimo secolo a.C. La lingua stessa partecipava dell’Etrusco e del latino con influenze dei dialetti umbri e osci. I FALISCI dicevano: FOIED VINO PIPAFO CRA CAREFO che tradotto in latino era: HODIE VINUM BIBAM CRAS CAREBO ossia: OGGI BERRÒ IL VINO DOMANI NE FARÒ A MENO).

Per quanto concerne le arti, seguirono i principi ed i gusti degli Etruschi veri e propri, però nei vasi usarono una decorazione originale propria, che fecero distinguere i loro vasi falischi dai vasi etruschi delle altre regioni. Sembra che tre fossero le principali città della Regione Falisca, FALERII o FALERIUM, FESCENNIUM, FALISCUM.

Delle tre città la più importante fu FALERII o FALERIUM che venne incorporata nella grande Confederazione Etru­sca e fu il capoluogo della Regione. Plutarco afferma che la città di FALERIUM era così difesa naturalmente e così ben fortificata, che era pronta a respin­gere qualsiasi attacco. I suoi abitanti non temevano i Romani anche se guidati da Furio Camillo.

Questi, dopo la presa di Veio, la cinse d’assedio e malgrado la diversa opinione degli abitanti, la conquistò nel 360 di Roma. Non fu distrutta, perché i Romani pensavano di farsene una buona alleata come Sutri e Nepi, ma nel 461, avendo preso parte alla sollevazione Etrusca contro Roma, fu ancora conquistata e sottomessa.

Nel 513 di Roma si ribellò di nuovo ed allora i Romani la sottomisero per l’ultima volta ad opera di Marcio Rutilio e la distrussero. Gli abitanti furono scacciati nelle vicinanze ed edificarono la FALERII NOVI in una posizione imposta dai vincitori. La storia della sua prima conquista è in breve questa: gli abitanti di FALERIUM, come racconta Tito Livio, convinti della inespugnabilità della città, guardavano con noncuranza i Romani che, guidati da Furio Camillo, si erano accampati poco lontano dalle mura. Uscivano anzi ed entravano regolarmente con tutta indifferenza.

Tra questi cittadini, un maestro, che tramava il tradimento, abitualmente accompagnava i suoi scolari fuori le mura, finché un giorno guidò di proposito la scolaresca sino al campo dei Romani allo scopo di offrire i ragazzi, molti dei quali erano figli di famiglie importanti, come ostaggi a Camillo e provo­care quindi la caduta della città. È noto che Camillo sdegnosamente rifiutò l’offerta e consegnò il maestro, con le mani legate al dorso, ai ragazzi, i quali a frustate lo ricondussero entro le mura. Il dolore degli abitanti per la scom­parsa dei figli, si mutò presto in gioia e nello stesso tempo in ammirazione per i Romani, quando i ragazzi raccontarono l’avventura sofferta. Questo episodio determinò la resa quasi volontaria della città nelle mani di Furio Camillo, che, in virtù delle circostanze non la distrusse e non ne deportò i cittadini.

Sulla circostanza della sua distruzione abbiamo una preziosa testimonianza dello storico bizantino del dodicesimo secolo ZONARA che, in base a docu­menti da lui consultati, ci conferma che la antica FALERIUM, situata su uno sperone altissimo, fu distrutta e che un’altra città fu fondata al suo posto in località facilmente accessibile. Questa affermazione coincide esattamente con le nostre ipotesi e le nostre convinzioni. La città di FALERIUM rimase spo­polata e desolata per molti secoli, finché nel secolo ottavo o nono dell’Era Cristiana, fu scelta in forza della sua posizione a divenire una nuova città che si chiamò CIVITAS CASTELLANA.

Nella attuale città di CIVITA CASTELLANA non esistono affatto resti Romani e questo dimostra sufficientemente che FALERII VETERES fu distrutta ed ab­bandonata quando si trovava nel periodo Etrusco mentre invece i molti resti Romani che si trovano a FALERII Novi ci convincono che essa nacque e pro­sperò sotto i Romani che praticamente ne curarono la nascita e la crescita.

Contro questa nostra convinzione il Nardini, il Muller, il Gell ritengono che l’attuale FALLERI sia la antica FALERII e la attuale CIVITA CASTELLANA sia la antica FESCENNIUM. Ora, se osserviamo con attenzione le opere di FALLERI, constatiamo che la costruzione delle mura e delle tombe sono di mano etrusca perché in fondo furono i FALISCI scacciati da FALERIUM a costruirle, dopo la distruzione della città. I Romani ne imposero il luogo ed il modo di ricostruzione avendo bene in mente che non potevano più permettere agli ex nemici la fondazione di una città che potesse costituire un futuro pericolo per loro. Difendersi in una città con duemila cinquecento metri di mura ed otto o nove porte, dispo­nendo di un esercito che al massimo poteva raggiungere le cinquemila unità, sarebbe stata per certo una impresa difficilissima.

Itinerari Etruschi – (dall’opera di George Dennis, 1848) – di Mario Castagnola – De Luca Editore – 1976.